domenica 24 maggio 2015

C'era una volta il Bel Paese #urbanistica #rigenerazioneurbana


Era da molto che volevo scrivere questo post e lo spunto me lo hanno fornito il mio girovagare nelle varie regioni italiane, il lavoro che svolgo per il mio editore nel campo dell’informazione ambientale, e da ultimo una mostra, ancora per pochi giorni visitabile al Mar (Museo d’Arte della città di Ravenna) ed intitolata appunto, “Il Bel Paese”.


L’Italia, se la intendiamo non come espressione politica ma come conformazione fisica, è identificabile come “Bel Paese”. L’espressione si deve ai nostri due massimi poeti, Dante e Petrarca e ad un libro di scienze naturali e geologiche scritto dall’abate Antonio Stoppani nel 1876. Nel libro Stoppani descrive le prime bellezze paesaggistiche da lui conosciute: quelle della natia valle di Agordo, la cui perfezione viene paragonata alle valli e alle gole dei monti della Svizzera. Con l’espressione “Bel Paese” il bello si incarna quindi con la conformazione geografica del luogo, con il paesaggio e l’Italia diviene per tutti il Paese – museo che, come uno scrigno prezioso, racchiude entro i suoi confini mondi arcaici, come la cultura greco-romana e quella etrusca, e mondi medioevali;  la grande cultura rinascimentale e quella barocca. La bellezza del nostro Paese è formata da “mille case riunite” come ebbe a scrivere Quatremere de Quincy, da particolarismi dislocati su un territorio che dalle Alpi corre fino alle coste siciliane. A questi localismi, la tanto bistrattata architettura del ventennio con la sua ondata stilistica cercherà di fare da collante uniforme.


Il sogno infranto della città ideale, lo sfregio voluto alla grande bellezza

Kahlil Gibran, famoso poeta libanese una volta scrisse che “l’arte degli italiani sta nella bellezza”, ora però la nostra “grande bellezza” anno dopo anno rischia di venire seriamente danneggiata e di scomparire. Sembra che gli italiani, coloro che sono stati in grado non solo di sognare, ma anche di progettare e realizzare la “città ideale”, basta pensare ad Urbino, a Palmanova, a Pienza ecc. abbiano smarrito i concetti di equilibrio, funzionalità, perfezione, ordine razionale. Le nostre città, i nostri Paesi, piccoli o grandi che siano, sono oramai soggetti al triste fenomeno della periferizzazione.

La periferizzazione tende ad investire l’area esterna della città contemporanea e riguarda un processo di graduale trasformazione del territorio che da agricolo viene inglobato dall’urbe, molto spesso dando vita a quartieri dormitorio privi di identità e servizi, mal collegati alle reti di comunicazione e privi di suggestioni, come se fossero tanti teatri vuoti.

Lo spazio urbano che utilizziamo è stato costruito per il 90% dopo la seconda guerra mondiale e questo fenomeno ha interessato anche gli altri Stati europei, tuttavia negli ultimi venti anni Francia, Germania ed Inghilterra sono state più lungimiranti ed hanno attuato delle rigorose politiche volte a contenere il consumo del suolo e al recupero delle aree dismesse, cosa che invece non è accaduta in Italia.

Il suolo è una risorsa naturale limitata e non rinnovabile necessario non solo per la produzione alimentare, ma anche per l’equilibrio della biosfera, del clima e degli ecosistemi. Secondo i dati forniti dall’Ispra quasi ogni giorno si consumano circa 100 ettari di terreno, mangiati da case, villette, capannoni, ma soprattutto da infrastrutture, come ad esempio le nuove strade asfaltate che sono sorte grazie alla viabilità ora incentrata sulle rotonde. Decine di ettari di terreno fertile hanno cambiato destinazione d’uso e da agricoli sono divenuti edificabili, grazie ovviamente alla lungimirante progettazione di nuove “utilissime” strade.

Peccato che questa trasformazione da suolo agricolo in terreno cementificato abbia dei piccoli effetti secondari: come la compromissione della capacità futura di stoccaggio di carbonio da parte del suolo e la capacità di immagazzinare l’acqua. Un terreno impermeabilizzato non permette all’acqua di infiltrarsi e al tempo stesso essendo privo di piante, non ha sostanze organiche in grado di svolgere la funzione di stoccaggio della CO2, nei casi più gravi si passa al vero e proprio dissesto idrogeologico.

Lo sprawl urbano, ovvero l’interesse di pochi a scapito di quello della collettività


La periferizzazione, che possiamo anche chiamare con il termine anglosassone di sprawl, tende quindi ad eliminare la distinzione tra città e campagna, manifestandosi nella frangia peri-urbana di città e paesi, dando luogo ad insediamenti formati per lo più da villette, o agglomerati di mini condomini massimo di due o tre piani, ognuno dei quali fornito di propria strada e parcheggi per auto. Si tratta dunque di costruzioni che, come possiamo vedere dando un’occhiata alle città in cui viviamo, si espandono orizzontalmente e che comportano elevati costi non solo ambientali come abbiamo già visto, ma anche economici e sociali. L’espandersi della periferia vuole anche dire per le amministrazioni locali costi maggiori per quanto riguarda i servizi pubblici che devono servire zone urbanizzate sempre più ampie. Si costruisce quindi soprattutto per il profitto di pochi investitori privati: si costruisce per il vantaggio della rendita immobiliare edilizia, finanziaria e fondiaria che grazie al cambio di destinazione d’uso vede aumentare il valore di ogni metro quadro di terreno. Poco male se poi le case costruite rimangono invendute e se cresce il numero delle persone che si trova in condizioni di disagio abitativo.

Bioarchitettura, sì ma a piccole dosi, l’urbanistica deve tornare materia sovrana


Come ha ripetuto più volte l’architetto Vezio De Lucia è “l’interesse collettivo che deve prevalere e contenere al proprio interno il mercato”. L’urbanistica non può essere una continua contrattazione tra interesse pubblico ed interesse privato, nella progettazione urbanistica dovrebbe prevalere l’interesse collettivo ed il buon senso, non le mode: riprendendo sempre un pensiero di De Lucia, se costruisco un intero quartiere con la bioedilizia e la bioarchitettura avrò sempre consumato una porzione di suolo. Prima di progettare nuovi quartieri, anche se bio, occorrerebbe recuperare tutto quello che si può recuperare. Ogni città, ogni paese è pieno di spazi dismessi che potrebbero essere resi nuovamente agibili e con una nuova destinazione. Assoedilizia ha più volte messo in evidenza che in Italia esistono oltre due milioni di case disabitate e inutilizzate, senza contare gli immobili del demanio civile e militare.
La rigenerazione urbana, il recupero dovrebbero diventare azioni in grado di migliorare l’aspetto delle nostre città, case abbandonate, capannoni dismessi o edifici vuoti potrebbero essere recuperati e magari trasformati in musei, biblioteche, centri per giovani o per anziani, o in nuovi alloggi.

Un esempio di paesaggio quasi intatto


Il paesaggio dei luoghi dove abito è stato ovviamente interessato da queste trasformazioni: nuovi quartieri sono sorti o stanno sorgendo, nuovi collegamenti stradali sono stati costruiti, tuttavia, esiste un posto dove ancora sembra che la colata di cemento non sia arrivata: Predappio Alta, se vi recate nel piccolo centro e ammirate il paesaggio dalla piccola Rocca vi ritrovate immersi in un mare di verde. Questo è diciamo il mio piccolo rifugio

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