Era da molto che volevo scrivere questo post e lo spunto me
lo hanno fornito il mio girovagare nelle varie regioni italiane, il lavoro che
svolgo per il mio editore nel campo dell’informazione ambientale, e da ultimo una
mostra, ancora per pochi giorni visitabile al Mar (Museo d’Arte della città di
Ravenna) ed intitolata appunto, “Il Bel Paese”.
L’Italia, se la intendiamo non come espressione politica ma
come conformazione fisica, è identificabile come “Bel Paese”. L’espressione si
deve ai nostri due massimi poeti, Dante e Petrarca e ad un libro di scienze
naturali e geologiche scritto dall’abate Antonio Stoppani nel 1876. Nel libro
Stoppani descrive le prime bellezze paesaggistiche da lui conosciute: quelle
della natia valle di Agordo, la cui perfezione viene paragonata alle valli e
alle gole dei monti della Svizzera. Con l’espressione “Bel Paese” il bello si
incarna quindi con la conformazione geografica del luogo, con il paesaggio e l’Italia
diviene per tutti il Paese – museo che, come uno scrigno prezioso, racchiude
entro i suoi confini mondi arcaici, come la cultura greco-romana e quella
etrusca, e mondi medioevali; la grande
cultura rinascimentale e quella barocca. La bellezza del nostro Paese è formata
da “mille case riunite” come ebbe a scrivere Quatremere de Quincy, da
particolarismi dislocati su un territorio che dalle Alpi corre fino alle coste siciliane.
A questi localismi, la tanto bistrattata architettura del ventennio con la sua
ondata stilistica cercherà di fare da collante uniforme.
Il sogno infranto della città ideale, lo sfregio voluto alla grande bellezza
Kahlil Gibran, famoso poeta libanese una volta scrisse che “l’arte
degli italiani sta nella bellezza”, ora però la nostra “grande bellezza” anno
dopo anno rischia di venire seriamente danneggiata e di scomparire. Sembra che
gli italiani, coloro che sono stati in grado non solo di sognare, ma anche di
progettare e realizzare la “città ideale”, basta pensare ad Urbino, a Palmanova,
a Pienza ecc. abbiano smarrito i concetti di equilibrio, funzionalità,
perfezione, ordine razionale. Le nostre città, i nostri Paesi, piccoli o grandi
che siano, sono oramai soggetti al triste fenomeno della periferizzazione.
La periferizzazione tende ad investire l’area esterna della
città contemporanea e riguarda un processo di graduale trasformazione del territorio
che da agricolo viene inglobato dall’urbe, molto spesso dando vita a quartieri
dormitorio privi di identità e servizi, mal collegati alle reti di comunicazione
e privi di suggestioni, come se fossero tanti teatri vuoti.
Lo spazio urbano che utilizziamo è stato costruito per il 90%
dopo la seconda guerra mondiale e questo fenomeno ha interessato anche gli
altri Stati europei, tuttavia negli ultimi venti anni Francia, Germania ed
Inghilterra sono state più lungimiranti ed hanno attuato delle rigorose
politiche volte a contenere il consumo del suolo e al recupero delle aree
dismesse, cosa che invece non è accaduta in Italia.
Il suolo è una risorsa naturale limitata e non rinnovabile
necessario non solo per la produzione alimentare, ma anche per l’equilibrio
della biosfera, del clima e degli ecosistemi. Secondo i dati forniti dall’Ispra
quasi ogni giorno si consumano circa 100 ettari di terreno, mangiati da case,
villette, capannoni, ma soprattutto da infrastrutture, come ad esempio le nuove
strade asfaltate che sono sorte grazie alla viabilità ora incentrata sulle
rotonde. Decine di ettari di terreno fertile hanno cambiato destinazione d’uso
e da agricoli sono divenuti edificabili, grazie ovviamente alla lungimirante
progettazione di nuove “utilissime” strade.
Peccato che questa trasformazione da suolo agricolo in
terreno cementificato abbia dei piccoli effetti secondari: come la
compromissione della capacità futura di stoccaggio di carbonio da parte del
suolo e la capacità di immagazzinare l’acqua. Un terreno impermeabilizzato non
permette all’acqua di infiltrarsi e al tempo stesso essendo privo di piante,
non ha sostanze organiche in grado di svolgere la funzione di stoccaggio della
CO2, nei casi più gravi si passa al vero e proprio dissesto idrogeologico.
Lo sprawl urbano, ovvero l’interesse di pochi a scapito di quello della collettività
La periferizzazione, che possiamo anche chiamare con il
termine anglosassone di sprawl, tende quindi ad eliminare la distinzione tra
città e campagna, manifestandosi nella frangia peri-urbana di città e paesi,
dando luogo ad insediamenti formati per lo più da villette, o agglomerati di
mini condomini massimo di due o tre piani, ognuno dei quali fornito di propria
strada e parcheggi per auto. Si tratta dunque di costruzioni che, come possiamo
vedere dando un’occhiata alle città in cui viviamo, si espandono
orizzontalmente e che comportano elevati costi non solo ambientali come abbiamo
già visto, ma anche economici e sociali. L’espandersi della periferia vuole
anche dire per le amministrazioni locali costi maggiori per quanto riguarda i
servizi pubblici che devono servire zone urbanizzate sempre più ampie. Si
costruisce quindi soprattutto per il profitto di pochi investitori privati: si
costruisce per il vantaggio della rendita immobiliare edilizia, finanziaria e
fondiaria che grazie al cambio di destinazione d’uso vede aumentare il valore
di ogni metro quadro di terreno. Poco male se poi le case costruite rimangono
invendute e se cresce il numero delle persone che si trova in condizioni di disagio
abitativo.
Bioarchitettura, sì ma a piccole dosi, l’urbanistica deve tornare materia sovrana
Come ha ripetuto più volte l’architetto Vezio De Lucia è “l’interesse
collettivo che deve prevalere e contenere al proprio interno il mercato”. L’urbanistica
non può essere una continua contrattazione tra interesse pubblico ed interesse
privato, nella progettazione urbanistica dovrebbe prevalere l’interesse
collettivo ed il buon senso, non le mode: riprendendo sempre un pensiero di De
Lucia, se costruisco un intero quartiere con la bioedilizia e la
bioarchitettura avrò sempre consumato una porzione di suolo. Prima di
progettare nuovi quartieri, anche se bio, occorrerebbe recuperare tutto quello
che si può recuperare. Ogni città, ogni paese è pieno di spazi dismessi che
potrebbero essere resi nuovamente agibili e con una nuova destinazione.
Assoedilizia ha più volte messo in evidenza che in Italia esistono oltre due
milioni di case disabitate e inutilizzate, senza contare gli immobili del
demanio civile e militare.
La rigenerazione urbana, il recupero dovrebbero diventare
azioni in grado di migliorare l’aspetto delle nostre città, case abbandonate,
capannoni dismessi o edifici vuoti potrebbero essere recuperati e magari
trasformati in musei, biblioteche, centri per giovani o per anziani, o in nuovi
alloggi.
Un esempio di paesaggio quasi intatto
Il paesaggio dei luoghi dove abito è stato ovviamente
interessato da queste trasformazioni: nuovi quartieri sono sorti o stanno
sorgendo, nuovi collegamenti stradali sono stati costruiti, tuttavia, esiste un
posto dove ancora sembra che la colata di cemento non sia arrivata: Predappio
Alta, se vi recate nel piccolo centro e ammirate il paesaggio dalla piccola
Rocca vi ritrovate immersi in un mare di verde. Questo è diciamo il mio piccolo
rifugio
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